Si allunga la vita, si accorcia la pensione

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Il tema è comparso nell’ultimo Rapporto annuale dell’Inps.

Statistiche sulla speranza di vita in base a reddito, lavoro e residenza.

Alzare l’età pensionabile non è socialmente facile. Allora si può abbassare l’età pensionata.

Non fisicamente: nessuno, ovviamente, vuole far morire i pensionati prima che sia la loro ora. Si può fare burocraticamente: si stabilisce un tempo medio generale di sopravvivenza da quando vai pensione; se la tua speranza di vita è più lunga, ti riducono proporzionalmente l’importo della pensione.

Non lo si fa a caso; lo si fa per statistica perché “numerosi studi mostrano che la mortalità varia significativamente in funzione delle caratteristiche individuali e in particolare del reddito”. Anzi, si individuerà “un indice di potenzialità economiche più accurato del reddito individuale, che tenga conto dell’apporto dell’eventuale coniuge”.

Non lo si fa per fare cassa; assolutamente no: lo si fa “per l’equità e la solidarietà del sistema pensionistico”, che attualmente “non tiene conto delle differenze di mortalità tra soggetti e in presenza di eterogeneità per classe di reddito, comporta un trasferimento di risorse dai soggetti meno facoltosi a quelli più ricchi e longevi generando di fatto una solidarietà al contrario”.

La fonte delle citazioni è il “XXII Rapporto Annuale Inps”.

Presentazione alla Camera dei Deputati (con diretta tv)

Non è un documento “interno” e neppure uno studio demografico. È, come dice il titolo, un “rapporto” ufficiale sull’attività dell’Inps e sullo scenario nel quale questa attività si svolge.

Proprio per questo la presentazione è avvenuta alla Camera dei Deputati, nella Sala della Regina, mercoledì 13 settembre. Se ne è fatta carico Micaela Gelera, commissario dell’Istituto. Era presente ed è intervenuta Marina Calderone, ministro del Lavoro. Ha fatto gli onori di casa Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera dei Deputati. Tutti gli italiani hanno potuto assistervi grazie alla diretta streaming messa in onda dalla WebTv ufficiale della Camera. Insomma, i destinatari del Rapporto siamo tutti noi italiani.

Il documento è corposo. Nelle sue quasi 500 pagine non ci sono solo le pensioni, ma anche le conseguenze del Covid su occupazione e previdenza, la situazione delle imprese, il supporto alle famiglie, l’organizzazione dell’Istituto di previdenza. “La speranza di vita dei pensionati da lavoro” è solo un paragrafo del secondo capitolo.

È probabilmente per questo che l’analisi relativa all’utilizzo di un ulteriore coefficiente di trasformazione per il montante contributivo non ha fatto notizia.

La vita corta dell’operaio

Qualche quotidiano, giovedì 14 settembre, ha comunque titolato sul contenuto di questo paragrafo, riferendo della presentazione del Rapporto alla Camera. “Un operaio vive 5 anni di meno di un dirigente”, è il titolo del Corriere della Sera. Titolo identico, solo al plurale, per Il Manifesto: “Gli operai vivono cinque anni di meno dei dirigenti”.

È certamente una notizia anche questa e giustamente merita un titolo: per il contenuto sulla diversa qualità della vita delle persone in Italia, prima che per i risvolti pensionistici, che la statistica sottende.  La fonte dei due titoli giornalistici è un passaggio dell’introduzione al Rapporto dell’Inps, che sintetizza dati poi presentati nel dettaglio.

L’attuale sistema previdenziale applica al montante contributivo un tasso di trasformazione indifferenziato, che presuppone una speranza di vita che varia solo in funzione dell’età al pensionamento.

Invece:

Si rileva, ad esempio, che un ex-lavoratore dipendente con un reddito coniugale nella fascia più bassa della distribuzione ha un’aspettativa di vita a 67 anni di quasi 5 anni inferiore rispetto a quella di un ex-contribuente al Fondo INPDAI, volo o telefonici, con reddito nella fascia più alta della distribuzione. Tali differenze tra le donne sono meno pronunciate, ma comunque rilevanti.

Stipendio, professione e regione

A questo dato riassuntivo l’Inps arriva con una serie di tabelle, che partono da un dato fissato uguale per tutti, anche se nella vita lavorativa non è così per tutti: l’inizio della pensione a 67 anni.

Da questa età lo studio dell’Inps ha elaborato i numeri sulla “speranza di vita”: si chiama così, ufficialmente in statistica, la vita che ti resta; trattandosi uno studio dell’Inps la denominazione dovrebbe essere più praticamente: quanto costi all’Inps rispetto a quello che hai versato di contributi.

Partendo dai 67 anni, la fascia (quintile, in statistica) di ex lavoratori con minor reddito coniugale ha una speranza di vita di 16,3 anni, per il quintile a più alto reddito la vita attesa è di 18,9 anni. In tutte le fasce di reddito le lavoratrici hanno più speranza di vita dei maschi: dai 3,6 ai 2,7 anni in più.

Poi ci sono le tabelle per tipo di attività lavorativa. In queste emerge il dato che ho già riportato e che ha “fatto notizia” all’indomani della presentazione: sono lo stipendio e la professione che allungano la vita.

Anche dove vivi ha un peso decisivo, forse ancor più del lavoro che hai fatto. Riporto la sintesi dello studio Inps.

Anche a livello territoriale, le differenze nella speranza di vita sono significative. Per i maschi, la longevità attesa è massima nelle Marche e nell’Umbria (18,3 anni), per le femmine nel Trentino-Alto Adige (21,6 anni). Per entrambi, è minima in Campania e Sicilia, ma anche in queste regioni il divario di genere è superiore a 2 anni e mezzo.

È interessante notare che per le femmine, la variabilità territoriale è maggiore di quella reddituale per cui a 67 anni le donne trentine hanno una speranza di vita di 2 anni superiore a quella delle campane.

Predisposizione genetiche dei marchigiani e dei campani? Servizi sanitari regionali differenziati in Trentino e in Sicilia?

I pensionati veneti sono nella fascia alta della vita lunga: 17,9 anni per gli uomini, 21,1 anni per le donne.

Numeri da completare

Ci sono anche altri numeri nel Rapporto Inps. Questi sono già sufficientemente interessanti, anche se da completare per essere statisticamente credibili.

Lo segnala lo stesso Rapporto: “Non disponendo però di informazioni accurate su tutti i redditi del pensionato, né sul suo nucleo familiare, si sono utilizzate le pensioni da lavoro, vecchiaia e anzianità/anticipate, dei componenti del nucleo coniugale. L’ipotesi è che la pensione da lavoro rifletta la carriera del pensionato nel corso di tutta la sua vita attiva”. L’ipotesi non è certamente valida nella realtà attuale della vita lavorativa.

E ancora: “Il reddito coniugale è stato calcolato sommando le pensioni da lavoro dei soggetti che sulla base degli archivi risultano coniugati”. Si tratta di un dato astratto, se riferito alla situazione di fatto di moltissime coppie italiane, anche in età di pensione; anzi, in Italia sono stati storicamente i pensionati e le pensionate ad introdurre la condizione di coppia di fatto, non coniugata formalmente.

 Sono numeri comunque utili da cui partire per progettare un moderno Stato sociale.

Pensioni e rinnovato Stato sociale

La direzione non è però nel senso che il Rapporto Inps attribuisce ai dati statistici, quando esplicitamente li confronta con i principi di equità e solidarietà.

Il confronto di questo tipo è improprio ed anche rischioso. Faccio solo due esempi.

Per il principio di equità: se una persona muore prima della previsione statistica, cosa farà l’Inps? Darà agli eredi la differenza di pensione che le spettava in base ai contributi versati?

Per il principio di solidarietà: visto che le donne – anche nelle tabelle del Rapporto Inps – prendono la pensione per più anni degli uomini, l’Istituto aggiungerà il criterio del sesso a quelli del reddito e della residenza per ricalcolare la pensione? I numeri dicono questo, ma la realtà della vita delle donne racconta di discriminazioni a loro danno durante tutto il periodo lavorativo.

Accantonata quindi la pretesa dell’Inps di insegnare equità e solidarietà, dal Rapporto si possono ricavare temi sui quali un rinnovato Stato sociale deve lavorare per dare attuazione nel nostro tempo all’articolo 3 della Costituzione. Il sistema pensionistico era stato pensato sia dai Padri costituenti (articolo 38) sia dai legislatori successivi come uno strumento decisivo.

Ad un certo punto parve che fondare le pensioni sulle retribuzioni non fosse abbastanza moderno. Si passò al calcolo contributivo, che fu salutato come un progresso. Continua ad essere considerato tale, perché è quello che più assomiglia al sistema privatistico delle assicurazioni. Dopo oltre trent’anni, il calcolo contributivo della pensione comincia a mostrarsi anch’esso inadeguato agli impegni costituzionali e alla vita delle persone.

17 settembre 2023