• Sono nativi digitali: si sono formati ed evoluti
proprio come i social media;
li utilizzano, li conoscono, sanno che non sono innocui

• Il coraggio di ascoltare i giovani non è facile darselo.
È più rassicurante limitarsi a parlare di giovani •
Della tragica pandemia la società italiana ha ormai perso la memoria (e quindi gli insegnamenti e le esperienze). Il Covid 19 è nominato solo al passato nelle polemiche sui vaccini.
Resiste, invece, al presente ed è addirittura considerato ancora “attivo” nella condizione sociale e psicologica dei giovani. Di loro si riscontra (nelle indagini) e si lamenta (tra genitori, in tv e a scuola) “l’isolamento sociale”, che si fa risalire prevalentemente alla pandemia e al confinamento che questa ha comportato.
Il coraggio di ascoltare i giovani
Certamente i nati in questo secolo hanno vissuto – proprio negli anni della loro formazione come persone – la più grande emergenza sanitaria globale e individuale da cento anni a questa parte. Molti di loro ne portano le conseguenze nelle mente; anche nel corpo, in qualche caso. Il riconoscerlo da parte della comunità è indispensabile per rafforzare la propria coesione dando piena cittadinanza a tutti i propri componenti.
Il riconoscimento della cittadinanza ai giovani è anche la premessa per attivare la loro partecipazione politica. Ne ha parlato il Presidente Sergio Mattarella la sera di San Silvestro 2023 nel suo messaggio di fine anno. Merita di “riascoltare” un passaggio, in cui indica sia le ragioni sia il metodo del riconoscimento dei giovani.
“In una società così dinamica, come quella di oggi, vi è ancor più bisogno dei giovani. Delle speranze che coltivano. Della loro capacità di cogliere il nuovo. (…) Quando la nostra Costituzione – continua Mattarella – parla di diritti, usa il verbo riconoscere. Significa che i diritti umani sono nati prima dello Stato. Ma, anche, che una democrazia si nutre, prima di tutto, della capacità di ascoltare. Occorre coraggio per ascoltare”.
Il coraggio di ascoltare i giovani non è facile darselo. È più rassicurante limitarsi a parlare di giovani.
La pandemia di solitudine ha preceduto quella di Covid
C’era un’epidemia già in corso prima di quella del Covid. Era il 2018 quando un articolo dell’Economist rappresentava quella dei giovani come la generazione della solitudine. L’articolo del settimanale inglese evidenziava che la solitudine non era più solo un problema degli anziani, ma una condizione crescente anche tra i giovani adulti e gli adolescenti.
La solitudine era diventata un’epidemia sociale. Quello stesso anno era iniziato nel Regno Unito con l’istituzione (il 18 gennaio) del Ministero della Solitudine nel governo di Theresa May.
Anche allora, come ora, si cercava il “virus” della solitudine epidemica. Per le nuove generazioni si evocava l’utilizzo dei social media: la connessione virtuale come sostituto tossico della relazione personale; gli “amici dei social” al posto della comunità sia locale sia politica.
Il SocialVirus è tuttora evocato come epidemico tra la generazione della solitudine. Per questo lo ha voluto verificare anche la società Noto Sondaggi, che all’inizio dell’anno ha condotto una ricerca per Il Sole 24 Ore del Lunedì. La risposta dei giovani intervistati è netta: non è il SocialVirus la causa dell’isolamento sociale.
Riassume il quotidiano economico: “La responsabilità dell’isolamento non è attribuibile alla tecnologia: il sondaggio sfata l’immagine di una generazione iper connessa visto che solo il 17% trascorre l’isolamento sui social. Una percentuale più bassa rispetto a chi guarda la tv (25%), ascolta musica (23%) e gioca alla playstation (20%)”.
I nativi digitali sanno che i social non sono innocui
A vivere così non è solo il campione della Noto Sondaggi: mille persone tra i 16 e i 24 anni. Lo conferma la ricerca realizzata in estate dalla piattaforma GWI. Ne riferisce il quotidiano Avvenire: “Lo studio – condotto su oltre 20 mila giovani e genitori in 18 Paesi al mondo – rivela che dal 2022 al 2024 la percentuale di adolescenti tra i 12 e i 15 anni che decide volontariamente di spegnere smartphone e tablet è cresciuta del 18 per cento e, tra gli interpellati, oggi si attesta a quota 40 per cento. Naturalmente non si tratta per forza di un addio definitivo alla tecnologia, bensì di pause ora dai social ora dalle ricerche online e ora dall’intero device”.
Del resto, si tratta di nativi digitali, che si sono formati ed evoluti proprio come i social media: li utilizzano, li conoscono, sanno che non sono innocui (quello che tutte le generazioni sanno delle sigarette), non ne dipendono (inevitabilmente).
Sanno anche fare meglio degli adulti per ridurre il… contagio del SocialVirus. Lo stesso articolo di Avvenire riferisce di un rapporto dello scorso anno che “ha rilevato che il 47% dei giovani tra i 16 e i 24 anni che usano i social disattiva le notifiche o usa la modalità non disturbare. Percentuali in aumento rispetto al 40% dell’anno precedente e al 28% degli utenti adulti più anziani”.
Nel “loro” mondo, quello in cui la storia è lunga come la loro vita (o al massimo come la vita di fratelli ed amici maggiori), nel mondo in cui sono nati e cresciuti, i giovani dimostrano di saper vivere e di sapersela cavare, come ha saputo fare ogni generazione.
Domenica, 17 agosto 2025
In copertina
Illustrazione dalla pagina del Partito Democratico del Lazio.